Cosa pensi della massoneria?

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sabato 11 luglio 2009

Dopo l’intervista al massone della loggia “Primavera” di Treviso (Siamo tutti alla ricerca di Dio), pubblico un’intervista a don Artemio Favaro, parroco nella chiesa di Quinto di Treviso. Confrontando i due testi (le domande sono le stesse), il lettore può poi fare le sue riflessioni e trarre le sue conclusioni.

Secondo lei, e in base alla sua esperienza di credente maturata in questi ultimi anni, qual è il disegno che Dio ha per ogni singolo uomo?
Sicuramente un disegno d’amore. “In questo sta l’amore –dice l’apostolo San Giovanni- non siamo stati noi a scegliere Dio ma Lui ha scelto noi”. E’ sua la prima mossa: sempre. L’iniziativa è sua: unica, totale, sorprendente. Si tratta di una logica che sfugge ai parametri di ogni buon senso: siamo dinanzi ad un progetto che si muove e si manifesta nella più assoluta gratuità e che, proprio perché tale, frequentemente ed elegantemente cerchiamo di ignorare o, peggio, di rimuovere… E ci lasciamo così andare a rincorse di presunta libertà e indipendenza o precipitiamo nell’abisso della violenza più cruda e inspiegabile o ci mettiamo a scalare le spalle dei fratelli per arrivare primi. Tutto questo perché ci sembra assurdo un Dio che viene a cercare semplicemente una relazione d’amore per realizzare con l’uomo una grande esperienza di comunione, di serenità e di pace. Gesù ha definito questa grande esperienza con la parola “Regno di Dio”: quel sogno unico ed esclusivo di fare con l’uomo di tutti i tempi un’unica grande famiglia, un’unica fraternità.

Nella sua vita - di uomo e di sacerdote - si è mai verificato un episodio tale da indurla a dubitare dell'esistenza di Dio? Può dirci qualcosa?
Ho sempre avuto una relazione molto inquieta con Dio, una relazione guadagnata con i denti. Vi sono stati dei momenti in cui mi sono sentito braccato e tirato per i capelli, altri in cui mi sono sentito un cercatore angosciato e ansioso di poter trovare qualcosa: raramente ho sperimentato serenità profonde… Passate le crisi dell’adolescenza e giunto alla scoperta che “credere è fidarsi di una relazione ed entrare in essa a viso aperto” non ho mai dubitato dell'esistenza di Dio, neanche nei momenti bui, perché c'è sempre un motivo che ti trascina dentro al tunnel del buio e del non-senso… anche se questo lo capisci dopo. Quando sei dentro, ti senti gettato in un deserto sconfinato in cui non sai dove attaccarti per venirne fuori. Nella mia vita di cercatore testardo e appassionato ci sono stati frequentissimi momenti in cui mi sono sentito così, in cui ho sperimentato l’amarezza dell’abbandono e la durezza della ricerca e da essi sono sempre uscito più robusto e convinto. Alla lunga sono riuscito a capire il senso di quelle fatiche attraversate. Mi dicono a volte che nel mio modo di parlare di Dio, della fede in Lui, del Vangelo, sono crudo, scarno, a tratti pessimista... Ma questo riflette la mia esperienza di Dio, carica di tante vicende di serenità, ma anche di drammaticità. Ho sperimentato che la relazione di Dio deve costare: non è una relazione “gratis”. Così come avviene tra un uomo e donna: se non si cerca di attraversare insieme anche i momenti difficili, la relazione non cresce, rimane stanca, neutra, insipida…; con Dio è la stessa cosa. Quando cerchi di capire il senso della fatica e il perché dei “momenti-no” senza sottrarti ad essi, allora la relazione con Lui diventa saporita, piacevole… “L’anima deve considerare l’aridità e il buio - ¬scrive Edith Stein - come segni che Dio le sta a fianco, strappandole di mano l’iniziativa”.

Ma nell'uomo c'è - secondo lei - il desiderio di conoscere e avvicinarsi a Dio? Quali
personali riflessioni, al riguardo, si sente di proporre?

Sono convinto che in tutti c'è questa sete di relazione con Dio: tante volte si tratta di una sete non ben identificata, che va alla deriva, che macina e scava dentro alle persone fino a spingerle a vivere esperienze devastanti, logoranti, talora distruttive. Se uno però accetta di coltivare questa sete, di conoscerla e decifrarla può approdare, piano piano, all’incontro con Dio. L'uomo non è fatto per vivere faccia a faccia con se stesso: finirebbe per snaturare la sua identità. Abbiamo bisogno dell’altro perché è lo specchio che ci rivela a noi stessi: la relazione con l’altro/a, se vissuta con verità, ci rafforza, ci riempie, ci arricchisce e, poco alla volta, può essere un forte veicolo che ci aiuta ad approdare alla relazione con il “totalmente Altro”, con Dio stesso. Il problema, molte volte, è di riuscire a leggere in profondità questo bisogno radicato nell’animo umano. In tutti questi anni ho incontrato persone che hanno condotto un’esistenza disperata e svuotata di ogni senso perché si sono portate addosso questo grande “vuoto interiore” causato dal rifiuto di accogliere e dare risposta a questo profondo e unico bisogno di relazione. Altre volte mi sono trovato a curare ferite laceranti provocate da risposte sbagliate o da scelte non sufficientemente maturate. E’ davvero triste e umiliante giungere a quel punto dell’esistenza in cui ti accorgi di aver sbagliato tutto o quasi….

In base alla sua esperienza di parroco che ogni giorno deve confrontarsi con persone di ogni fascia sociale, si può arrivare a conoscere Dio con la sola luce della ragione?
Ho conosciuto molte persone che hanno cercato di avvicinarsi a Dio con la sola ragione: non lo credo possibile. Io sono un razionalista, e sono convinto che in un percorso di fede non si può prescindere dalla ragione: ed è la ragione stessa che ti guida fino a quel punto in cui capisci che devi metterti in gioco con il cuore. Il passaggio che fa scattare la relazione con Dio è un passaggio di vitalità, che supera, pur includendola, la razionalità. La razionalità è necessaria perchè aiuta a far sì che la relazione sia autentica, ma la fede, l’affidarsi a Dio e a Gesù Cristo scatta quando ti lasci rubare il cuore da Lui. Viceversa, senza questo passaggio, la fede rimane un'adesione culturale, un'esperienza religiosa vissuta come atto dovuto, un dare-avere. Credo che uno dei nodi più grossi da sciogliere oggi sia proprio questo, perché rischiamo di avere una marea di religiosità e una minima esperienza di fede…

Tenendo presente la sua esperienza di parroco, in che termini si può parlare dell'esistenza di Dio con chi non crede?
Ho diversi amici non credenti ma che sono stati e continuano ad essere cercatori critici ed appassionati. Con loro non è difficile parlare di Dio perché c’è un qualcosa di unico e forte che ci lega: c’è amicizia, sincerità, stima profonda, soprattutto quella solidarietà che scaturisce dalla consapevolezza di non possedere l’interezza della verità e di essere perciò entrambi portatori di un bagaglio precario e limitato. E’ questo retroterra umano caratterizzato da profonda sim-patia che facilita un confronto più intenso e l’approdo a scoperte arricchenti. Ciò che preoccupa molto di più oggi è l’ignoranza e l’arroganza con cui molti pseudo-credenti o presunti tali parlano di Dio o si propongono come paladini della religione con l’unico scopo di perseguire interessi di parte.

Ci sono persone che di fronte a un lutto subito, ad esempio di un bambino, dicono di non credere più a Dio... a queste persone lei cosa si sentirebbe di dire?
Niente. Dinanzi alla tragedia del soffrire e del morire ogni parola può essere superflua e retorica. Il dramma e la morte non amano la retorica né le parole vuote, inutili. Il dolore e la morte chiedono soprattutto silenzio e dignità. Ecco perché condividerei silenziosamente il dramma che stanno vivendo. Nella mia esperienza di sacerdote, non sono mai riuscito a mettermi di fronte alla tragedia ricorrendo a frasi e parole stucchevoli e dal sapore vagamente consolatorio… Nel momento del dramma l'unica cosa che mi riesce di fare è di stare accanto in silenzio. Non riesco a verbalizzare niente perché sento che, pur dicendo cose vere, in quel momento chi sta vivendo il buio della disperazione non si aspetta parole, ma solo che io sappia condividere fino in fondo il suo dolore.

Ma Dio - secondo lei - perché ha creato l'uomo?
Perché Dio è relazione. Dio è fecondità, vita, amore...E l’amore, quando è tale, sente il bisogno di dare, di espandersi, di aprirsi. Perché, ad esempio, due sposi fanno un figlio? Non sono forse autosufficienti? Certo, ma la coppia sente il bisogno di generare un altro da sé perché in questo trova una pienezza, la completezza del suo essere coppia, un'espansione che la spinge oltre, verso il futuro. Lo stesso libro della Genesi aiuta la nostra risposta: Dio creò la terra –dice il testo- la natura, ogni genere di animali e di piante ma solo quando creò l'uomo trovò la sua pienezza perché lo creò maschio femmina, a sua immagine e somiglianza, perché fosse lo “specchio” davanti a lui. “E Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine sua lo creò: maschio e femmina li creò” (Gen. 1, 27).

In quali modi, secondo lei, Dio si rivela a quanti credono in Lui?
Se dovessi raccontare le occasioni e i modi con cui Dio ha bussato alla porta della mia vita non potrei dimenticare i “volti”: quella marea di volti strani, segnati dalle cicatrici del dolore, della fatica e dell’abbandono che hanno segnato buona parte della mia esistenza. Sono quegli “ospiti”inattesi ed imprevisti che giungono a te attraverso le strade più impensate, le situazioni fortuite che scavalcano i tuoi piani, li rovesciano e ti obbligano a cambiare rotta: soprattutto arrivano ad incidere a tal punto il tuo cuore che non puoi fingere di non vedere né esimerti dal dire loro un “sì” o un “no”. Tutti questi “volti” sono stati una “Parola di Dio” per me: sempre. Non solo. Dio bussa continuamente anche attraverso la forza unica e dirompente della sua Parola: quella Parola che ha sempre “stregato” un’infinità di persone affascinandole e trasformandole in testimoni unici e credibili del suo amore. La nota dominante ancora che caratterizza lo stile di Dio nel suo cercare continuamente l’uomo sta in quelle modalità del vivere, riconducibili alla normalità. Sarebbe importante arrivare a capire la straordinarietà delle cose ordinarie. Attraverso la quotidianità possono avvenire cose straordinarie. Come dice Pascal: “Per misurare la virtù di un uomo, non bisogna guardarlo nelle grandi occasioni, ma nella vita quotidiana”.

Cosa significa, secondo lei, credere in Dio?
Credere in Dio significa non sentirsi condannati a vivere. Sentire che c'è questo soffio quotidiano sulla tua spalla, sentire che c'è una relazione che ti impegna ma che è anche liberante. Credere è navigare nel mare della vita ed entrare senza paura in esso solcando la forza delle onde e affrontando l'urlo della tempesta con la consapevolezza che non affondi perché il suo sguardo ti rassicura. Credere è saper “entrare nella casa dell'altro”, nel suo vissuto, nella sua storia per ascoltare e condividere e non per giudicare ed escludere. Credere è scoprire la forza della propria precarietà, scoprire che nella bisaccia abbiamo solo “cinque pani e due pesci” pronti, ad ogni istante, a condividerli con tutti. Credere è scegliere di entrare in quel “vortice” accattivante che profuma di carità, di accoglienza, di stupore verso la ricchezza dell'altro, e nutrirsi di quella speranza che ti fa credere che anche la persona più sbagliata è figlio suo e mio fratello. Credere ancora è consapevolezza estrema della propria povertà, è convinzione di essere umili cercatori di una verità che è ben più grande di noi e non ci appartiene e che giungeremmo ad incontrare nella misura in cui sapremo scoprire, apprezzare e condividere la “piccola porzione di verità” che ciascuno reca con sé.

Quali sono, in base alla sua esperienza personale, le caratteristiche della fede in Dio?
Se guardo alle prime comunità cristiane vedo che sono quattro le grandi caratteristiche dei credenti nel Risorto: l'ascolto profondo e convinto della Parola di Dio, l'Eucarestia come stile di vita vissuta, la Preghiera come “spazio di gratuità” e la Fraternità vera, reale. E sono decisamente convinto che continuano ad essere tali anche oggi. È fondamentale la centralità della Parola di Dio perché solo da essa trae forza una vita che sceglie di “farsi dono”, Eucaristia e in essa si radica il coraggio di vivere come fratelli. Un credente o una comunità che non si radicano sulla Parola di Dio rischiano di essere auto-referenziali e di divenire “funzionari” della religione ma non testimoni, benefattori ma incapaci di condivisione. Le fatiche che oggi stiamo vivendo come credenti e come Chiesa sono senz'altro dovute ai tempi difficili e contorti che stiamo attraversando, ma in parte dipendono anche dal fatto che il “Dio che parla” non è spesso al centro della sua comunità che è la Chiesa. Occorre tornare all'assoluto di Dio, allo “ Shemà Yisra’èl” (Ascolta, Israele!) del grande libro del Deuteronomio (6,4) e al legame intenso e convinto con la storia perché, dice G. Pouget, “quando si sopprime il legame tra la fede e la storia non c’ più ponte tra il cielo e la terra”.

Secondo lei, la fede dev'essere solo un atto personale oppure deve anche esprimersi come atto comunitario?
Questo e quello. Se prima non è un atto personale, fa fatica a diventare un'esperienza comunitaria. Si fatica a vivere la dimensione comunitaria della fede proprio perché è scarsa a livello personale. Siamo figli di una famiglia, che è la Trinità, non siamo figli di una monade assoluta, di un architetto. L'architetto non mi domanda una relazione, ma solo di aderire ai suoi piani architettonici, non mi domanda di mettermi in gioco nella mia coscienza. Il grande lavoro fatto dai profeti e dalle guide del popolo nell'Antico Testamento, è stato di aiutare il popolo ebreo a capire la propria identità di popolo, salvato insieme dall'Egitto e che insieme perciò doveva andare verso la Terra Promessa.

Oggi, secondo lei, sono importanti le formule della fede?
Ciò che importa è la testimonianza. Le formule possono essere pedagogicamente utili per certe persone o in certe situazioni, ma l'unica cosa che conta veramente è la testimonianza e la credibilità. «L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, - scriveva Paolo VI nell’Evangeli Nuntiandi (41) - o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

E' possibile, secondo lei, fidarsi sempre di Dio? Può parlarci di una sua personale
esperienza?

Dico sì ma con molto pudore e sottovoce. Perché è un “atto di fiducia”, un “affidarmi” che non è mai stato immediato, spontaneamente naturale. Come dice un salmo, “ha sempre dovuto attraversare una valle arida prima di trasformarla in sorgente”. Dentro la Chiesa ho sempre lavorato con impegno e serietà, consapevole che essa non è un'esperienza perfetta e pura, ma anche carica di limite e di peccato. Non ho mai preteso di cambiarla, ma piuttosto di servirla e di servire soprattutto le persone. Non ho mai vissuto grossi contrasti con la gerarchia perché ho sempre pensato che essa è una parte della Chiesa ma non tutta la Chiesa. Sono cresciuto nello spirito del Concilio Vaticano II e quindi credo che la Chiesa siamo noi, le persone. Persone inserite nella storia e chiamate ad intessere con essa un dialogo profondo. Avendo scelto di fare della mia vita un servizio e un dono, ho cercato di vivere sempre mescolato alle persone, trovandomi spesso a condividere diverse esperienze drammatiche, con il rischio che anche la mia fede e la mia vita di prete andasse in crisi. Ho vissuto e condiviso la morte del figlio piccolo di amici carissimi, la morte di due amici ancora giovani e molto cari. Penso ancora al periodo in cui ho patito un forte disagio con l'aspetto ufficiale della Chiesa perché un'esperienza nuova avviata con altri amici preti fu poco accolta e compresa. D'altronde sono prezzi da pagare: quando cerchi di essere te stesso, quando rifiuti il ruolo del funzionario e dell'impiegato, quando cerchi di lasciarti muovere dall'amore per la storia e per le persone che in essa vivono e soffrono... puoi anche attraversare momenti di incomprensione e di momentanea solitudine...

Lei prega? In quali occasioni?
Certo, e anche con altri preti. Siamo quattro preti che vivono insieme e che ogni mattina iniziano la giornata con un forte momento comune di preghiera. Prego anche con la comunità, attraverso l’Eucarestia quotidiana e gli incontri settimanali di ascolto della Parola di Dio. La preghiera poi è anche e soprattutto uno stile di vita, un sentirmi costantemente in sintonia con Lui. Non mi nego inoltre “spazi personali” di preghiera, estremamente necessari per ritrovare la profondità di me e rimettere a fuoco le assi portanti della mia fedeltà ai Cristo e ai fratelli. [a cura di Carlo Silvano]

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