Cosa pensi della massoneria?

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sabato 22 agosto 2009

Una reclusione che rispetti la dignità del detenuto

Altra riflessione - che pubblico solo in parte - sul tema del carcere. A scriverla è un massone che - nel biennio 2005 e 2006 - è stato Maestro venerabile della loggia "Primavera" di Treviso. La versione integrale di questa riflessione sarà proposta nel libro-intervista a don Pietro Zardo.

La mia conoscenza del sistema carcerario italiano è quella di un comune cittadino che trae informazioni sull’argomento dagli organi di stampa e dalla televisione. Da quanto è a mia conoscenza, la situazione di inadeguatezza del sistema e delle strutture carcerarie non è dissimile da carcere a carcere. Fatta eccezione per le strutture che ospitano detenuti particolari, quali i mafiosi, sottoposti alle restrizioni previste dall’art. 41 bis dell’Ordinamento carcerario, mi risulta che tutte le case circondariali del Paese siano caratterizzate da sovraffollamento di detenuti, con tutte le implicazioni e le problematiche che queste situazioni inevitabilmente generano. Al sovraffollamento si aggiunge, inoltre, una totale mancanza di opportunità di riabilitazione per i detenuti, in assenza della quale rimane soltanto la rassegnazione e la disperazione.
Non dobbiamo dimenticare che le disposizioni di legge vigenti in materia, non contemplano il carcere alla stregua di un luogo all’interno del quale il detenuto venga sottoposto ad una sorta di vendetta da parte dello Stato; bensì una struttura ed un “sistema” all’interno del quale chi ha commesso un reato debba certamente scontare la pena inflittagli dal giudice di merito, ma nel contempo abbia la concreta possibilità di ravvedersi e di riabilitarsi. Purtroppo questa situazione di inadeguatezza, cui ho fatto cenno, perdura da tanti, troppi anni e non trova soluzione soprattutto perché “la politica” non ha la volontà né di trovare nuove soluzioni, né di rendere effettivamente applicabili le norme esistenti. Talvolta appare in televisione il parlamentare di questo o di quello schieramento politico, il quale in buona fede, ma io ritengo invece con una buona dose di ipocrisia, si indigna per la situazione delle carceri in Italia.
La cruda realtà è che, da un punto di vista politico, il problema delle carceri non interessa nessun partito, anzi, il volerlo affrontare, diventa controproducente sul piano elettorale, perché va contro “ il comune sentire” della stragrande maggioranza dei cittadini.[continua]

C.M.
loggia “Primavera” di Treviso
affiliata al Grande Oriente d'Italia

sabato 11 luglio 2009

Dopo l’intervista al massone della loggia “Primavera” di Treviso (Siamo tutti alla ricerca di Dio), pubblico un’intervista a don Artemio Favaro, parroco nella chiesa di Quinto di Treviso. Confrontando i due testi (le domande sono le stesse), il lettore può poi fare le sue riflessioni e trarre le sue conclusioni.

Secondo lei, e in base alla sua esperienza di credente maturata in questi ultimi anni, qual è il disegno che Dio ha per ogni singolo uomo?
Sicuramente un disegno d’amore. “In questo sta l’amore –dice l’apostolo San Giovanni- non siamo stati noi a scegliere Dio ma Lui ha scelto noi”. E’ sua la prima mossa: sempre. L’iniziativa è sua: unica, totale, sorprendente. Si tratta di una logica che sfugge ai parametri di ogni buon senso: siamo dinanzi ad un progetto che si muove e si manifesta nella più assoluta gratuità e che, proprio perché tale, frequentemente ed elegantemente cerchiamo di ignorare o, peggio, di rimuovere… E ci lasciamo così andare a rincorse di presunta libertà e indipendenza o precipitiamo nell’abisso della violenza più cruda e inspiegabile o ci mettiamo a scalare le spalle dei fratelli per arrivare primi. Tutto questo perché ci sembra assurdo un Dio che viene a cercare semplicemente una relazione d’amore per realizzare con l’uomo una grande esperienza di comunione, di serenità e di pace. Gesù ha definito questa grande esperienza con la parola “Regno di Dio”: quel sogno unico ed esclusivo di fare con l’uomo di tutti i tempi un’unica grande famiglia, un’unica fraternità.

Nella sua vita - di uomo e di sacerdote - si è mai verificato un episodio tale da indurla a dubitare dell'esistenza di Dio? Può dirci qualcosa?
Ho sempre avuto una relazione molto inquieta con Dio, una relazione guadagnata con i denti. Vi sono stati dei momenti in cui mi sono sentito braccato e tirato per i capelli, altri in cui mi sono sentito un cercatore angosciato e ansioso di poter trovare qualcosa: raramente ho sperimentato serenità profonde… Passate le crisi dell’adolescenza e giunto alla scoperta che “credere è fidarsi di una relazione ed entrare in essa a viso aperto” non ho mai dubitato dell'esistenza di Dio, neanche nei momenti bui, perché c'è sempre un motivo che ti trascina dentro al tunnel del buio e del non-senso… anche se questo lo capisci dopo. Quando sei dentro, ti senti gettato in un deserto sconfinato in cui non sai dove attaccarti per venirne fuori. Nella mia vita di cercatore testardo e appassionato ci sono stati frequentissimi momenti in cui mi sono sentito così, in cui ho sperimentato l’amarezza dell’abbandono e la durezza della ricerca e da essi sono sempre uscito più robusto e convinto. Alla lunga sono riuscito a capire il senso di quelle fatiche attraversate. Mi dicono a volte che nel mio modo di parlare di Dio, della fede in Lui, del Vangelo, sono crudo, scarno, a tratti pessimista... Ma questo riflette la mia esperienza di Dio, carica di tante vicende di serenità, ma anche di drammaticità. Ho sperimentato che la relazione di Dio deve costare: non è una relazione “gratis”. Così come avviene tra un uomo e donna: se non si cerca di attraversare insieme anche i momenti difficili, la relazione non cresce, rimane stanca, neutra, insipida…; con Dio è la stessa cosa. Quando cerchi di capire il senso della fatica e il perché dei “momenti-no” senza sottrarti ad essi, allora la relazione con Lui diventa saporita, piacevole… “L’anima deve considerare l’aridità e il buio - ¬scrive Edith Stein - come segni che Dio le sta a fianco, strappandole di mano l’iniziativa”.

Ma nell'uomo c'è - secondo lei - il desiderio di conoscere e avvicinarsi a Dio? Quali
personali riflessioni, al riguardo, si sente di proporre?

Sono convinto che in tutti c'è questa sete di relazione con Dio: tante volte si tratta di una sete non ben identificata, che va alla deriva, che macina e scava dentro alle persone fino a spingerle a vivere esperienze devastanti, logoranti, talora distruttive. Se uno però accetta di coltivare questa sete, di conoscerla e decifrarla può approdare, piano piano, all’incontro con Dio. L'uomo non è fatto per vivere faccia a faccia con se stesso: finirebbe per snaturare la sua identità. Abbiamo bisogno dell’altro perché è lo specchio che ci rivela a noi stessi: la relazione con l’altro/a, se vissuta con verità, ci rafforza, ci riempie, ci arricchisce e, poco alla volta, può essere un forte veicolo che ci aiuta ad approdare alla relazione con il “totalmente Altro”, con Dio stesso. Il problema, molte volte, è di riuscire a leggere in profondità questo bisogno radicato nell’animo umano. In tutti questi anni ho incontrato persone che hanno condotto un’esistenza disperata e svuotata di ogni senso perché si sono portate addosso questo grande “vuoto interiore” causato dal rifiuto di accogliere e dare risposta a questo profondo e unico bisogno di relazione. Altre volte mi sono trovato a curare ferite laceranti provocate da risposte sbagliate o da scelte non sufficientemente maturate. E’ davvero triste e umiliante giungere a quel punto dell’esistenza in cui ti accorgi di aver sbagliato tutto o quasi….

In base alla sua esperienza di parroco che ogni giorno deve confrontarsi con persone di ogni fascia sociale, si può arrivare a conoscere Dio con la sola luce della ragione?
Ho conosciuto molte persone che hanno cercato di avvicinarsi a Dio con la sola ragione: non lo credo possibile. Io sono un razionalista, e sono convinto che in un percorso di fede non si può prescindere dalla ragione: ed è la ragione stessa che ti guida fino a quel punto in cui capisci che devi metterti in gioco con il cuore. Il passaggio che fa scattare la relazione con Dio è un passaggio di vitalità, che supera, pur includendola, la razionalità. La razionalità è necessaria perchè aiuta a far sì che la relazione sia autentica, ma la fede, l’affidarsi a Dio e a Gesù Cristo scatta quando ti lasci rubare il cuore da Lui. Viceversa, senza questo passaggio, la fede rimane un'adesione culturale, un'esperienza religiosa vissuta come atto dovuto, un dare-avere. Credo che uno dei nodi più grossi da sciogliere oggi sia proprio questo, perché rischiamo di avere una marea di religiosità e una minima esperienza di fede…

Tenendo presente la sua esperienza di parroco, in che termini si può parlare dell'esistenza di Dio con chi non crede?
Ho diversi amici non credenti ma che sono stati e continuano ad essere cercatori critici ed appassionati. Con loro non è difficile parlare di Dio perché c’è un qualcosa di unico e forte che ci lega: c’è amicizia, sincerità, stima profonda, soprattutto quella solidarietà che scaturisce dalla consapevolezza di non possedere l’interezza della verità e di essere perciò entrambi portatori di un bagaglio precario e limitato. E’ questo retroterra umano caratterizzato da profonda sim-patia che facilita un confronto più intenso e l’approdo a scoperte arricchenti. Ciò che preoccupa molto di più oggi è l’ignoranza e l’arroganza con cui molti pseudo-credenti o presunti tali parlano di Dio o si propongono come paladini della religione con l’unico scopo di perseguire interessi di parte.

Ci sono persone che di fronte a un lutto subito, ad esempio di un bambino, dicono di non credere più a Dio... a queste persone lei cosa si sentirebbe di dire?
Niente. Dinanzi alla tragedia del soffrire e del morire ogni parola può essere superflua e retorica. Il dramma e la morte non amano la retorica né le parole vuote, inutili. Il dolore e la morte chiedono soprattutto silenzio e dignità. Ecco perché condividerei silenziosamente il dramma che stanno vivendo. Nella mia esperienza di sacerdote, non sono mai riuscito a mettermi di fronte alla tragedia ricorrendo a frasi e parole stucchevoli e dal sapore vagamente consolatorio… Nel momento del dramma l'unica cosa che mi riesce di fare è di stare accanto in silenzio. Non riesco a verbalizzare niente perché sento che, pur dicendo cose vere, in quel momento chi sta vivendo il buio della disperazione non si aspetta parole, ma solo che io sappia condividere fino in fondo il suo dolore.

Ma Dio - secondo lei - perché ha creato l'uomo?
Perché Dio è relazione. Dio è fecondità, vita, amore...E l’amore, quando è tale, sente il bisogno di dare, di espandersi, di aprirsi. Perché, ad esempio, due sposi fanno un figlio? Non sono forse autosufficienti? Certo, ma la coppia sente il bisogno di generare un altro da sé perché in questo trova una pienezza, la completezza del suo essere coppia, un'espansione che la spinge oltre, verso il futuro. Lo stesso libro della Genesi aiuta la nostra risposta: Dio creò la terra –dice il testo- la natura, ogni genere di animali e di piante ma solo quando creò l'uomo trovò la sua pienezza perché lo creò maschio femmina, a sua immagine e somiglianza, perché fosse lo “specchio” davanti a lui. “E Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine sua lo creò: maschio e femmina li creò” (Gen. 1, 27).

In quali modi, secondo lei, Dio si rivela a quanti credono in Lui?
Se dovessi raccontare le occasioni e i modi con cui Dio ha bussato alla porta della mia vita non potrei dimenticare i “volti”: quella marea di volti strani, segnati dalle cicatrici del dolore, della fatica e dell’abbandono che hanno segnato buona parte della mia esistenza. Sono quegli “ospiti”inattesi ed imprevisti che giungono a te attraverso le strade più impensate, le situazioni fortuite che scavalcano i tuoi piani, li rovesciano e ti obbligano a cambiare rotta: soprattutto arrivano ad incidere a tal punto il tuo cuore che non puoi fingere di non vedere né esimerti dal dire loro un “sì” o un “no”. Tutti questi “volti” sono stati una “Parola di Dio” per me: sempre. Non solo. Dio bussa continuamente anche attraverso la forza unica e dirompente della sua Parola: quella Parola che ha sempre “stregato” un’infinità di persone affascinandole e trasformandole in testimoni unici e credibili del suo amore. La nota dominante ancora che caratterizza lo stile di Dio nel suo cercare continuamente l’uomo sta in quelle modalità del vivere, riconducibili alla normalità. Sarebbe importante arrivare a capire la straordinarietà delle cose ordinarie. Attraverso la quotidianità possono avvenire cose straordinarie. Come dice Pascal: “Per misurare la virtù di un uomo, non bisogna guardarlo nelle grandi occasioni, ma nella vita quotidiana”.

Cosa significa, secondo lei, credere in Dio?
Credere in Dio significa non sentirsi condannati a vivere. Sentire che c'è questo soffio quotidiano sulla tua spalla, sentire che c'è una relazione che ti impegna ma che è anche liberante. Credere è navigare nel mare della vita ed entrare senza paura in esso solcando la forza delle onde e affrontando l'urlo della tempesta con la consapevolezza che non affondi perché il suo sguardo ti rassicura. Credere è saper “entrare nella casa dell'altro”, nel suo vissuto, nella sua storia per ascoltare e condividere e non per giudicare ed escludere. Credere è scoprire la forza della propria precarietà, scoprire che nella bisaccia abbiamo solo “cinque pani e due pesci” pronti, ad ogni istante, a condividerli con tutti. Credere è scegliere di entrare in quel “vortice” accattivante che profuma di carità, di accoglienza, di stupore verso la ricchezza dell'altro, e nutrirsi di quella speranza che ti fa credere che anche la persona più sbagliata è figlio suo e mio fratello. Credere ancora è consapevolezza estrema della propria povertà, è convinzione di essere umili cercatori di una verità che è ben più grande di noi e non ci appartiene e che giungeremmo ad incontrare nella misura in cui sapremo scoprire, apprezzare e condividere la “piccola porzione di verità” che ciascuno reca con sé.

Quali sono, in base alla sua esperienza personale, le caratteristiche della fede in Dio?
Se guardo alle prime comunità cristiane vedo che sono quattro le grandi caratteristiche dei credenti nel Risorto: l'ascolto profondo e convinto della Parola di Dio, l'Eucarestia come stile di vita vissuta, la Preghiera come “spazio di gratuità” e la Fraternità vera, reale. E sono decisamente convinto che continuano ad essere tali anche oggi. È fondamentale la centralità della Parola di Dio perché solo da essa trae forza una vita che sceglie di “farsi dono”, Eucaristia e in essa si radica il coraggio di vivere come fratelli. Un credente o una comunità che non si radicano sulla Parola di Dio rischiano di essere auto-referenziali e di divenire “funzionari” della religione ma non testimoni, benefattori ma incapaci di condivisione. Le fatiche che oggi stiamo vivendo come credenti e come Chiesa sono senz'altro dovute ai tempi difficili e contorti che stiamo attraversando, ma in parte dipendono anche dal fatto che il “Dio che parla” non è spesso al centro della sua comunità che è la Chiesa. Occorre tornare all'assoluto di Dio, allo “ Shemà Yisra’èl” (Ascolta, Israele!) del grande libro del Deuteronomio (6,4) e al legame intenso e convinto con la storia perché, dice G. Pouget, “quando si sopprime il legame tra la fede e la storia non c’ più ponte tra il cielo e la terra”.

Secondo lei, la fede dev'essere solo un atto personale oppure deve anche esprimersi come atto comunitario?
Questo e quello. Se prima non è un atto personale, fa fatica a diventare un'esperienza comunitaria. Si fatica a vivere la dimensione comunitaria della fede proprio perché è scarsa a livello personale. Siamo figli di una famiglia, che è la Trinità, non siamo figli di una monade assoluta, di un architetto. L'architetto non mi domanda una relazione, ma solo di aderire ai suoi piani architettonici, non mi domanda di mettermi in gioco nella mia coscienza. Il grande lavoro fatto dai profeti e dalle guide del popolo nell'Antico Testamento, è stato di aiutare il popolo ebreo a capire la propria identità di popolo, salvato insieme dall'Egitto e che insieme perciò doveva andare verso la Terra Promessa.

Oggi, secondo lei, sono importanti le formule della fede?
Ciò che importa è la testimonianza. Le formule possono essere pedagogicamente utili per certe persone o in certe situazioni, ma l'unica cosa che conta veramente è la testimonianza e la credibilità. «L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, - scriveva Paolo VI nell’Evangeli Nuntiandi (41) - o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

E' possibile, secondo lei, fidarsi sempre di Dio? Può parlarci di una sua personale
esperienza?

Dico sì ma con molto pudore e sottovoce. Perché è un “atto di fiducia”, un “affidarmi” che non è mai stato immediato, spontaneamente naturale. Come dice un salmo, “ha sempre dovuto attraversare una valle arida prima di trasformarla in sorgente”. Dentro la Chiesa ho sempre lavorato con impegno e serietà, consapevole che essa non è un'esperienza perfetta e pura, ma anche carica di limite e di peccato. Non ho mai preteso di cambiarla, ma piuttosto di servirla e di servire soprattutto le persone. Non ho mai vissuto grossi contrasti con la gerarchia perché ho sempre pensato che essa è una parte della Chiesa ma non tutta la Chiesa. Sono cresciuto nello spirito del Concilio Vaticano II e quindi credo che la Chiesa siamo noi, le persone. Persone inserite nella storia e chiamate ad intessere con essa un dialogo profondo. Avendo scelto di fare della mia vita un servizio e un dono, ho cercato di vivere sempre mescolato alle persone, trovandomi spesso a condividere diverse esperienze drammatiche, con il rischio che anche la mia fede e la mia vita di prete andasse in crisi. Ho vissuto e condiviso la morte del figlio piccolo di amici carissimi, la morte di due amici ancora giovani e molto cari. Penso ancora al periodo in cui ho patito un forte disagio con l'aspetto ufficiale della Chiesa perché un'esperienza nuova avviata con altri amici preti fu poco accolta e compresa. D'altronde sono prezzi da pagare: quando cerchi di essere te stesso, quando rifiuti il ruolo del funzionario e dell'impiegato, quando cerchi di lasciarti muovere dall'amore per la storia e per le persone che in essa vivono e soffrono... puoi anche attraversare momenti di incomprensione e di momentanea solitudine...

Lei prega? In quali occasioni?
Certo, e anche con altri preti. Siamo quattro preti che vivono insieme e che ogni mattina iniziano la giornata con un forte momento comune di preghiera. Prego anche con la comunità, attraverso l’Eucarestia quotidiana e gli incontri settimanali di ascolto della Parola di Dio. La preghiera poi è anche e soprattutto uno stile di vita, un sentirmi costantemente in sintonia con Lui. Non mi nego inoltre “spazi personali” di preghiera, estremamente necessari per ritrovare la profondità di me e rimettere a fuoco le assi portanti della mia fedeltà ai Cristo e ai fratelli. [a cura di Carlo Silvano]

martedì 26 maggio 2009

Chi è il Grande Architetto dell'Universo?

L'intervista che segue mi è stata rilasciata da un massone che lavora come medico di base in un grosso comune alle porte della città di Treviso: abbiamo parlato della sua concezione del Grande Architetto dell'Universo e dell'anima.

Nella sua quotidianità chi è il Grande Architetto dell'Universo?
Nella mia quotidianità esiste solo la coscienza di agire dentro i parametri diun'etica che si basa sul non andare contro certi principi di correttezza che definisco universali, poco mi preoccupo del Grande Architetto dell'Universo (G.A.D.U.).

Che cosa comporta credere nel Grande Architetto dell'Universo?
Credere nel G.A.D.U. per me è credere che Lui è parte e tutto dell'Universo; direi che seguo molto fedelmente il concetto di Dio di Baruch Spinosa.

Come si alimenta la fede nel Grande Architetto?
Non ho bisogno di alimentare una fede giacché il solo esistere e partecipareall'Universo, mi dà la consapevolezza dell'esistenza di una Forza Universale che non socome definire, ma nemmeno mi interessa più di tanto.

Certi credenti immaginano Dio come un vecchietto dalla barba bianca, altri lo definiscono puro Spirito. Lei, come massone, dovendo descrivere la figura fisica del Grande Architetto, quali parole userebbe?
Molto semplicemente una forza, un'energia generativa e distruttiva, ciclica e infinita.

Nel libro della Genesi si legge: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Per un massone che crede nel Grande Architetto, quale senso possono avere queste parole tratte dalla Bibbia?
Per me la Bibbia ha – e parlo a titolo personale e non a nome dei massoni – un senso simbolico, e potrebbe essere sostituita con altri simboli utili a rappresentare unconcetto trascendentale. A mio avviso le parole della Bibbia sono scritte da unbiblista in un particolare periodo storico e segnato dalla necessità di dare un senso storico al popolo ebreo.

L'universo – secondo lei – è stato creato seguendo un preciso disegno?
Non credo nel disegno intelligente.

Perché – secondo lei – il Grande Architetto ha creato l'uomo?
Seguendo il pensiero del mio concetto di Dio, posso pure pensare che l'uomo sia stato solo un epifenomeno del processo della creazione universale.

I cristiani credono che Dio abbia creato l'uomo a propria immagine e somiglianza. Quali sono le sue considerazioni?
Penso che al rovescio sia Dio che assomiglia troppo all'uomo che lo ha creato per la sua necessità di sentirsi trascendente.

Lei, come massone, crede nell'esistenza dell'anima?
Tutto dipende da quello che pensiamo sull'anima, elemento indipendente creato da Dio, o energia vitale partecipe dello stesso corpo che, dopo la morte, si manifesta come energia che va a fare parte del Tutto. Io credo nella seconda ipotesi perché più razionale, però non ho la verità in mano, so solo che devo aspettare per sapere... spero ancora di dover aspettare per un bel po'.

Con la morte dell'uomo, muore anche l'anima?
Non lo so, ma mi auguro che una traccia del nostro essere permanga nell'universo.

Cosa ci aspetta dopo questa vita?
Me lo domando molto frequentemente, però non so dare una risposta razionale. (a cura di Carlo Silvano)

mercoledì 13 maggio 2009

L'opinione di un massone sui clandestini


Ad un massone trevigiano ho posto tre domande inerenti ad un articolo pubblicato su "La Tribuna" (http://espresso.repubblica.it/dettaglio-local//2080595), e riguardante la presenza dei clandestini in Italia e l'opera di don Canuto Toso. Devo precisare che ho avuto modo di parlare dei clandestini con don Canuto, il quale ha inteso sottolineare il fenomeno in generale nella storia dell'emigrazione, senza approvarlo, specialmente quando sbarcano numerosi a Lampedusa. Insomma, don Canuto ritiene indispensabile e concorda su un certo regolamento dei flussi migratori.
Qual è la sua opinione sulle posizioni assunte da don Canuto Toso nell'articolo pubblicato su La Tribuna del 29 aprile scorso?
Premetto che ammiro don Canuto Toso per quello che ha fatto e fa, ma non sono d'accordo con l'idea che bisogna essere tolleranti con i clandestini per il fatto che, nei tempi passati, anche gli italiani hanno tentato questa strada. La legge è legge, e questo vale per ieri e per oggi; occorre instaurare una situazione tale che si possa definire "Ordo ab Chao", ovvero l'Ordine del caos.
Se è vero che ci sono clandestini attivi nel mondo della delinquenza, è anche vero, però, che sono tanti a scappare dai loro Paesi per sfuggire a guerre, epidemie e fame. Non bisogna, secondo lei, fare allora delle distinzioni e aiutare concretamente chi vive in situazioni di emergenza?
Al di là della solidarietà che lo Stato Italiano pratica con alcuni stanziamenti di somme in Bilancio - poco?, molto? -, ci sono organizzazioni internazionali preposte a questo scopo. In casi particolari di persecuzione politica lo Stato, tramite apposite Commissioni, concede l'asilo politico ai clandestini.
Lei svolge la professione di medico. Se la sentirebbe di denunciare alla polizia un clandestino che dovesse eventualmente rivolgersi a lei per essere curato?
Sono diventato medico con l'obbligo deontologico di curare chiunque, evitando di denunziare, o fare referto, qualora questo dovesse procurare pregiudizio penale al paziente.

mercoledì 22 aprile 2009

pranzo a Ponte della Priula

Oggi ho conosciuto un nuovo massone. Fa parte della Gran Loggia d'Italia e abbiamo pranzato insieme in un ristorante sul fiume Piave. In un'ora e mezza abbiamo toccato molti argomenti, e devo riconoscere di aver incontrato un'altra persona che affronta in maniera pacata ogni argomento relativo alla Libera Muratoria.

martedì 21 aprile 2009

Siamo tutti alla ricerca di Dio

Ho iniziato a raccogliere il materiale per un nuovo libro dedicato alla Massoneria presente a Treviso, e recentemente ho intervistato un massone del Grande Oriente d'Italia, focalizzando l'attenzione su Dio e sul rapporto tra uomo e Dio. Pur non condividendo il contenuto di certe risposte, riporto fedelmente quanto mi è stato riferito, convinto che quanto emerge dall'intervista offre numerosi spunti per la riflessione personale anche ai cattolici. Ecco la bozza dell'intervista.
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Secondo lei, qual è il disegno che Dio ha per ogni singolo uomo?
Devo preliminarmente precisare che, da un punto di vista ontologico, per me Dio è il Grande Architetto dell’Universo e che personalmente non mi riconosco in nessuna religione. Se questa è una visione relativista… ebbene, allora sono un relativista! Devo dire, inoltre, che l’esortazione “conosci te stesso”, iscritta sul tempio dell’Oracolo di Delfi, ben riassume l’insegnamento di Socrate, in quanto la Verità è in noi stessi e non nel mondo delle apparenze. Più tardi anche Sant’Agostino affermerà: “non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la Verità”. Ma, venendo al punto, io penso che Dio non voglia tracciare un disegno, un destino per ogni singolo uomo. Perché, se così fosse, dove andrebbe a finire il libero arbitrio? Se fin dalla nascita il destino di ogni uomo fosse segnato, fin nei minimi dettagli, l’individuo, pervaso da una sorta di passiva rassegnazione, non avrebbe alcun incentivo, alcun stimolo per compiacere Dio, diventando migliore e seguendo i Suoi precetti, secondo una propria libera scelta. A mio avviso, ogni essere umano nasce e la propria esistenza viene segnata e talvolta condizionata da accadimenti che prescindono la propria volontà ma, grazie a Dio - ed è proprio il caso di dirlo -, ad esso, nella generalità dei casi, rimangono numerose ”chances” per determinare il proprio destino.

Ma nell’uomo c’è - secondo lei - il desiderio di conoscere e avvicinarsi a Dio?
Come le piante tendono verso la luce, così l’uomo è proteso alla ricerca di Dio. A mio avviso, questa condizione interiore è insita nella natura umana. Infatti, qualsiasi popolo, a prescindere dal grado di civiltà raggiunto, dal periodo storico preso in considerazione, o dal suo insediamento da un punto di vista geografico, ha sempre manifestato un propria forma di religiosità, magari legata alla propria cultura. E’ emblematico il fatto che gli ebrei pratichino la circoncisione, oppure che i musulmani non si nutrano di carne di maiale; il tutto, a mio avviso, per ragioni di natura culturale, ma anche climatica. La religiosità dell’individuo si estrinseca, tanto nel contesto di una religione monoteista, quanto nel contesto di una religione politeista, così come talune religioni, come quella cristiana, si fondano sulla trascendenza, mentre altre religioni animistiche si fondano sull’immanenza.

Si può - a suo avviso - arrivare a conoscere Dio con la sola luce della ragione?
Com’è noto la fede costituisce l’elemento imprescindibile per avvicinarsi a Dio. Allo stato, nessuno ha mai dimostrato, utilizzando metodi e protocolli scientifici vigenti, l’esistenza o la non esistenza di Dio. Sant’Agostino sosteneva che, dopo la fede, la ragione costituisce un ulteriore mezzo per conoscere Dio.

In che termini si può parlare dell’esistenza di Dio con chi non crede?
Temo che con un ateo sia difficile e, forse, inutile parlare dell’esistenza di Dio.

Ma Dio - secondo lei - perché ha creato l’uomo?
Se facciamo un ragionamento partendo dall’Antico Testamento, allora la risposta è alquanto scontata. Infatti, ogni religione fornisce ai propri adepti delle risposte ben precise nel merito. Se allarghiamo il nostro orizzonte, da un punto di vista speculativo, la ragione della nostra esistenza non trova, allo stato, risposte certe e convincenti. Il mio personale convincimento è che l’uomo è una piccola, infinitesimale parte integrante del creato, al pari di tutto ciò che compone l’universo. Ritengo che l’umanità abbia perso l’antica certezza di avere un ruolo predominante all’interno dell’universo, ne consegue dunque che è ragionevole abbandonare una visione geocentrica dell’uomo, mi si passi il termine inappropriato, per approdare ad una più consona visione eliocentrica.

In quali modi, secondo lei, Dio si rivela a quanti credono in Lui?
Il modo con il quale Dio si rivela è sotto gli occhi di tutti, o, meglio, “di chi sa vedere”. L’universo in cui viviamo è lo specchio dell’infinito, la testimonianza più evidente dell’esistenza di Dio. In questo senso, mi sento vicino alla filosofia di Giordano Bruno, il quale riconosceva Dio in ogni manifestazione della natura.

Cosa significa, secondo lei, credere in Dio?
Posso risponderle in questo modo: il massone non crede, come il religioso ad un Dio trascendente e personale, né come il filosofo ad un’astrazione, ma conosce Dio come Legge che regola l’equilibrio perfetto dell’Universo, prima sostanza intelligente universale che scaturisce da tutte le cose visibili ed invisibili.

Quali sono, in base alla sua esperienza personale, le caratteristiche della fede in Dio?
La fede in Dio non può estrinsecarsi soltanto nella ritualità di ogni domenica, come accade ad esempio nel caso dei cattolici. Se non vi è coerenza da parte dell’individuo nei comportamenti, nel rispetto di quei principi universali che accomunano quasi tutte le religioni, la fede rischia di diventare una vuota esternazione rituale. A tal proposito, devo dire che apprezzo quei preti, scomodi ed ingombranti per la gerarchia ecclesiastica, i quali prediligono prestare la loro attenzione ed il loro aiuto agli emarginati, a quelli che hanno smarrito la retta via, ai poveri ed, in generale, alle persone più deboli. Ritengo che questo atteggiamento li avvicini a Dio, rendendo il loro agire coerente con il Vangelo, molto più di certi prelati che, come si suol dire, “predicano bene e razzolano male”.

Secondo lei, la fede dev’essere solo un atto personale oppure deve anche esprimersi come atto comunitario?
Non vi è contraddizione tra una cosa e l’altra. Ci sono delle circostanze in cui l’uomo preferisce onorare Dio in un rapporto di intimità e quindi di incontro individuale. In altri momenti, quando prevale il desiderio di manifestare la propria fede e la propria appartenenza, l’individuo privilegia momenti comunitari, che trovano espressione nella ritualità della Santa Messa o, più in generale, nella liturgia.

Sono importanti, secondo lei, le formule della fede?
Le formule della fede, costituite dalla liturgia e dai riti, che rappresentano l’aspetto exoterico di ogni religione, rivestono una certa importanza. In ultima analisi, ciò che più conta non è la formula, cioè il mezzo, bensì il fine, l’incontro con Dio.

E’ possibile, secondo lei, fidarsi sempre di Dio?
Il termine fidarsi si attaglia più al rapporto tra esseri umani che tra gli stessi ed il loro Creatore. Se Dio è Legge ed Amore, allora sentimenti come fiducia o sfiducia non hanno ragione di esistere.

Lei prega? In quali occasioni?
Se per preghiera si intende la recitazione di un testo convenzionale indirizzato a Dio, allora la mia risposta è che io non prego. Non passa giorno, però, senza che il mio pensiero vada a Dio, tanto nei momenti tristi, quanto in quelli lieti. (a cura di Carlo Silvano)

lunedì 20 aprile 2009

Prostituzione: un massone e un prete si confrontano

Nel libro "Quale Primavera per i figli della Vedova?" riporto il parere di un massone e di un prete (don Piergiorgio Morlin, parroco a Mazzocco di Mogliano Veneto) sul problema della prostituzione.

La prostituzione - ho chiesto al massone - non è un fenomeno che riguarda solo le immigrate di colore: anche le italiane si vendono. A una tariffa certamente diversa dalle immigrate, ma si vendono. È pensabile un’eventuale legalizzazione delle cosiddette “case di tolleranza”?

Per rispondere alla sua domanda ribadisco che la prostituzione, se praticata quale libera e consapevole scelta, non è un reato. Gli atti osceni in luogo pubblico costituiscono invece un reato. Non sono in grado di prevedere le ripercussioni che potrebbero verificarsi con l’apertura delle case di tolleranza. È noto che in certi quartieri delle grandi città la gente vive sotto assedio e di notte, dopo una certa ora, non può praticamente uscire di casa perché droga e prostituzione la fanno da padrone. Anche a Treviso questo fenomeno, con il passare del tempo, si avvia a diventare una vera e propria emergenza sociale. Se questo disagio sociale potesse venire anche parzialmente risolto, al di là di ogni ipocrisia, ben venga la riapertura delle case chiuse! Lo “status quo” che perdura da lustri, ha dimostrato che la situazione è andata via via peggiorando e dunque un atteggiamento delle istituzioni inerte e privo di iniziative adeguate è comunque colpevole.
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Sul fenomeno della prostituzione è da registrare l’amaro sfogo di don Morlin, che afferma: “È noto che il fenomeno della prostituzione è vecchio come il mondo. I discorsi sono sempre quelli. Non c’è molto da aggiungere. Io mi pongo il problema più da un punto di vista educativo-culturale-etico che della sicurezza sociale che spetta all’autorità governativa. La soluzione amministrativa, però, qualunque essa sia, non ha alcuna efficacia se non parte da alcuni valori di ondo condivisi: dignità, cultura, coscienza etica, ecc... Oggi, in realtà, c’è uno spaventoso lassismo etico non solo sul piano sessuale ma anche sul piano civile della legalità. Lo slogan “tolleranza ero” proclamato dagli attuali governanti contro le prostitute, i clandestini e i poveri cristi si spreca a tutti i livelli del governo del Paese. Perché in Italia non viene proclamata la stessa “tolleranza zero” nei confronti dei potenti che fanno i furbi, che legalizzano il “falso in bilancio”, che fanno leggi apposite per sfuggire alla giustizia, che insultano turpemente magistrati e vversari politici, che sono proprietari del 70% del sistema informativo italiano, che fanno eleggere al Parlamento italiano mafiosi, inquisiti e corrotti?... Comunque, per quanto riguarda il fenomeno della prostituzione, sono nettamente contrario alle cosiddette case di tolleranza”.